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“La fortuna di volere bene a qualcuno”

È difficile invitare ad immergervi nelle pagine di questo libro senza correre il rischio di spoilerare qualcosa, togliendovi il gusto del cammino.

Quello che Mattia Corrente racconta è infatti un viaggio, una catabasi – quel  viaggio negli inferi tanto caro alla letteratura greca, che ha portato Ulisse ad interrogare Tiresia, Orfeo a cercare la sua Euridice, che è diventato un topos letterario anche per la latinità con Enea che scende nell’Ade ad incontrare suo padre Anchise e per la letteratura universale, con Dante ed il suo viaggio descritto nella Divina Commedia.

Ma come tutti i grandi viaggi raccontati dai grandi libri, questo è anche un viaggio dentro sé stessi, dentro il senso più profondo del nostro essere uomini e donne, alla ricerca delle risposte alle domande più urgenti ed ineludibili che il cuore umano contiene.

A compiere il viaggio non è però questa volta un adulto “nel mezzo del cammin della sua vita”, né un eroe, almeno non come quelli che siamo stati abituati ad incontrare nella letteratura classica.

Nadia Terranova nella sua bellissima raccolta di saggi “Un’idea di infanzia. Libri, bambini e altra letteratura” ci avverte che “non esiste la letteratura ‘per’ ragazzi, esiste la letteratura con i ragazzi e bambini dentro”. Ecco, questo libro conferma assolutamente questa affermazione.

Il protagonista è un undicenne, Michele Lanza, figlio della bigliettaia degli aliscafi dell’isola di Stromboli, abitante della periferia delle periferie del mondo attuale, isolano isolato da tutti, non solo privo di superpoteri ma anche affetto da emimelia radiale, che gli blocca un braccio.

Michele non rifiuta mai una Coca cola ma la mamma non vuole che ne beva troppa, ha il cuore di burro ma pensa che solo le pappemolli piangano, soprattutto ha una curiosità che supera la paura e che lo porterà ad affrontare un viaggio assurdo ed entusiasmante, avvincente e rischioso.

Cosa ci rende uomini in fondo se non appunto l’accettare il rischio, non indietreggiare di fronte alle sfide, piccole e grandi che la vita, in maniera assolutamente imprevedibile ed a volte beffarda, ci pone di fronte?

Ci pensate mai  – dice Michele ad un certo punto – a quell’attimo prima in cui sta per accadervi qualcosa che potrebbe cambiare tutto e invece potete decidere che non accadrà mai? Ecco, io adesso potrei tornarmene a casa, rimettermi il pigiama e infilarmi nel letto ancora caldo. Domattina mi alzerei come tutte le altre mattine e nessuno saprebbe cosa potevo fare e non ho fatto. Nessuno mi direbbe che sono stato un codardo perché ho lasciato perdere. Ti senti al sicuro quando puoi restare a guardare, perché tanto nessuno sa che potevi fare e non hai mosso un dito.
Ma io sono nato con una vocina dentro che mi ha sempre detto che se solo tu puoi fare una cosa, allora la devi fare.

Michele nel viaggio ha un amico speciale, un “parente di sfiga”, Gabo, il gabbiano zoppo, che incredibilmente parla (ed è pure logorroico), ed ha la zampa destra più corta della sinistra.

Due eroi “improbabili” – come li definisce il risvolto di copertina – si trovano ad affrontare un viaggio nell’aldilà protetti da alcuni dèi ma osteggiati da molti altri, per risolvere un mistero che avvolge il passato familiare di Michele ma condiziona tutto l’equilibrio del regno dell’Ade.

Se il mito è da sempre e ad ogni latitudine terrestre la narrazione di storie che sono paradigmatiche della nostra identità di uomini e donne, questo libro si pone a pieno titolo nella letteratura mitologica, reinterpretando attraverso la fantasia e soprattutto l’ironia l’equilibrio che misteriosamente lega il caso al destino, le nostre minime vicende personali, incastrate in condizioni spazio temporali che avvertiamo più come una limitazione che come uno spazio di libertà, con il senso più ampio dell’esistenza e dell’eterno scorrere del tempo.

Il mito greco rimane il punto di riferimento dell’autore, che mette sul cammino di Michele una folta schiera di divinità e figure mitologiche antiche rivisitate e reinterpretate con sagace umorismo ed efficace collegamento alla contemporaneità.

Da Demetra, dagli occhi azzurri e grandi, “la pelle rosa tipo le nuvole quando tramonta a Stromboli” e giusto qualche ruga, che cucina favolose linguine all’eoliana e calamari fritti, presentata come una mamma disperata con il desiderio di rivivere serenamente la maternità.

A Hermes, psicopompo abbronzato con i riccioli rossi, che usa lacca ecologica e si rivela un po’ imbroglione, sempre al cellulare, con ali disegnate ovunque, con i risvoltini ai pantaloni e la fobia per i germi.

A Caronte, che con l’avvento del progresso ha perso il lavoro di traghettatore d’anime ed è diventato un contrabbandiere alcolizzato, reietto come Cerbero che gli fa da compagno dopo che la tecnologia ha reso inutile anche il suo lavoro di controllore. Armato di uno speciale e strambo mattarello aiuterà Michele e, soprattutto, gli mostrerà che l’amicizia consiste nel sacrificio di sé per l’altro, e che “se vivi per volere bene a qualcuno, vale sempre la pena ricominciare anche per te”.

La fantasia spazia senza confini in questo regno dell’aldilà che è un Ade ridisegnato come un enorme mare sovrastato da un eterno tramonto, incastrato nelle viscere della terra, con delle mura di titanio a trattenerne i limiti e un arcipelago a disegnare una grande A, nelle cui isole vengono raccolti tramite un rinnovato e convincente sistema di contrappasso le anime dei defunti e le poche anime dei beati.

Un computer superintelligente ha sostituito la giustizia divina, creando caos e minando il sistema generale.

Come accade nella vita anche qui sarà attraverso una serie incredibile di incontri che i nostri eroi proveranno a risolvere un problema molto più grande di loro e delle loro energie. Incontreranno i personaggi più strani ed improbabili, dai grandi tiranni del passato – da Hitler a Nerone, da Attila a Napoleone Bonaparte – ridicolizzati e visti nella loro effimera volubilità, passando da personaggi del mito e del passato antico e recente, il pappagallo Portobello, il pirata Barbarossa a cui si è imbiancata la barba, è diventato un accumulatore seriale ed ha preso Umberto Eco come precettore, Argo, la nave che portò Giasone e gli Argonauti alla conquista del vello d’oro, che parla ed accompagna i nostri eroi nel viaggio, che conosce il futuro ma ha sempre paura di sbagliarsi, il cavallo che Caligola aveva nominato senatore. E poi  la flotta degli Achei e dei Troiani, Agamennone, Leonardo Da Vinci, Alan Turing, Frida, Freddie Mercury, Diomede, Cariddi, Teti, Chirone il centauro, Eracle e persino Polifemo.

Ogni incontro – come nella vita di ognuno di noi – è un passaggio fondamentale, una possibilità che ci viene offerta per crescere e capire, mettersi in gioco e diventare grandi.

Fino a scoprire che “Gli eroi non vincono perché vincono, ma perché ci provano. Se per proteggere le persone a cui vuoi bene sei disposto a superare persino la paura di fallire.”

Perché in fondo “per diventare eroi basta avere la fortuna di volere bene a qualcuno”.

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Buona la prima, Roberta

A cosa servono le parole?
In un bel saggio sul loro “potere” Vera Gheno dice, anche rifacendosi forse al pensiero narrativo di Bruner, che le parole ci aiutano innanzitutto a costruire il “senso del sé”, a capire chi siamo, cosa vogliamo, qual è il senso del nostro essere al mondo; ci aiutano anche a scoprire la realtà, il qui ed ora della nostra esistenza incastrato nel fluire incessante dello spazio tempo; e ci aiutano, infine, ad entrare in relazione con gli altri, forse – aggiungo io – perché quell’avventurosa e continua ricerca, che condiziona le prime due funzioni della parola, sarebbe uno sterile ed infruttuoso esercizio solitario se la portassimo avanti tristemente da soli.
“Tutta la vita che resta” è appunto una convincente e riuscita testimonianza di quanto affermato da Vera Gheno.
Ci sono dolori, tragedie, ingiustizie, che lasciano attoniti e ammutoliti, che segnano – come viene efficacemente descritto nelle prime pagine di questo bel romanzo – uno spartiacque tra la vita che  c’era – che sentivamo quasi di possedere per diritto, a cui ci eravamo abituati senza farci neanche caso – e quella che resta, come le macerie dopo un bombardamento o un terremoto improvviso.
Sono ferite indicibili, irrimediabilmente segnate dalla sensazione che non vi sia una possibile spiegazione, un dettaglio a cui aggrapparsi, quando il caso beffardamente ti scaglia contro il fulmine dell’infelicità, e – soprattutto – non ci siano, non possano esserci parole adeguate.
Gran parte dei reduci delle grandi tragedie del secolo scorso – dai campi di sterminio nazisti ai gulag sovietici, dalle atrocità del Vietnam a quelle della Serbia – hanno pagato con il mutismo l’onta di sopravvivere a quelle tragedie, come accade anche ad una delle protagoniste del libro.
La maggior parte delle persone, anche quelle che ci vogliono bene e magari ci hanno accompagnato per anni, di fronte ad un simile mutismo mostrano una totale incapacità di reazione, avviluppate nella vergogna e nel dolore, nella rigida impossibilità di sporgersi su di un baratro che viene quasi dimenticato, omesso.
E poi ci sono persone che hanno la forza – quella ingenua baldanza di Leo che non fa i conti ma d’impeto si butta a capofitto – di affrontarlo, quello stesso baratro, di scandagliarlo e – soprattutto – di cercare le parole, rompendo il mutismo.
“Possiamo chiuderci nel dolore, Bertilla, – dice una delle protagoniste in uno dei passaggi più struggenti del romanzo – o decidere di prendere il buono che abbiamo intorno» (…). «È difficile. Ma ho bisogno di credere che in tutto quello che è stato ci sia un senso che ora non possiamo comprendere. Che un giorno tutto sarà chiaro, che quanto è stato non è che il dettaglio di un disegno che ancora non abbiamo occhi per vedere.»

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“La vita è effimera, effimera quanto volete, ma sarà eternamente stata”

Ho scoperto Valentino Ronchi qualche anno fa, attraverso una raccolta di versi, “Buongiorno ragazzi”, nel piccolo spazio dedicato alla poesia di una libreria. Incuriosito ho comprato nei mesi successivi altri due suoi libri di poesia e il romanzo “Riviere”.

Adesso, dopo aver letto tutto d’un fiato il suo ultimo romanzo, rimango ancora più convinto dell’impressione iniziale, che a caldo gli ho scritto, subito dopo aver chiuso l’ultima pagina del romanzo, per non lasciarla disperdere.

Ha una dote preziosa, Valentino. È una dote squisitamente poetica, che anche qui, in quello che lui stesso ha definito un tentativo “di assecondare la Vita” emerge, chiara e lucida.

Riesce – qui come negli altri suoi testi – a far immergere chi legge nei dettagli insignificanti di vite qualsiasi, calpestarne i sentieri ghiacciati, guardare giù da finestre che si affacciano su piazze, seguire il filo dei pensieri che si svolgono mentre la vita scorre, apparentemente indifferente. Ma proprio in quel momento avverti di toccare, proprio fisicamente, il mistero insondabile di quelle esistenze, e quindi di ognuno.

Recensendo un altro suo libro un paio di anni fa lo avevo chiamato intuito – quella capacità di guardare dentro (in-tueri) per provare ad afferrare la vertigine dell’ineffabile.

Per dirla con Alina – gli ho scritto poche ore fa – “tu dai un nome a cose che sentiamo tutti”. Che è poi il cuore e il segreto della vera poesia.

E da una poesia nasce anche questo romanzo. L’avevo segnata, in “primo e parziale resoconto di una storia d’amore”, come quella che mi era piaciuta di più. Si intitola “Presque-rien” – Quasi niente – così come questo romanzo, di cui contiene il cuore, ed è inserita in una sezione (un’altra simile c’è anche in “buongiorno ragazzi”) sul 1933, anno in cui il filosofo Vladimir Jankélévitch insegnò in un Liceo di Lione.

“Quasi niente è vicino ad essere niente, è un passo da essere niente” –  dice Jankélévitch nella sua ultima lezione a Lione, quasi sul finire del romanzo – “come la vita che è effimera, effimera quanto volete, ma sarà eternamente stata”.

Effimere sono le vicende personali degli altri due protagonisti, Philippe e Alina. Effimere forse le loro speranze, inconsapevolmente coltivate in anni che preludevano alla tragedia della seconda guerra mondiale. Effimeri i loro desideri, dunque, le loro aspirazioni, la scoperta condivisa dell’amore, della filosofia, del desiderio di conoscenza.

Come acutamente anche Leopardi annotava nel suo Zibaldone, “l’uomo arriva a confondersi quasi col nulla”.

Eppure.

Riprendo in mano il libretto di poesie di Valentino, e la poesia che avevo sottolineato allora.

“lei lo sa di suo – le scrive
queste cose – che è così che si vive e s’improvvisa
con nulla più che mezze certezze. E altro non si fa
che andare avanti e rallentare un attimo talvolta
per segnarsi sul quaderno qualche rigo, qualche traccia.”

 Valentino Ronchi segue queste tracce, le conserva e custodisce, ci mette dietro esse, facendocene appassionare – perché in fondo “ognuno ha il suo mistero” e la poesia come l’arte, ci ha insegnato Joseph Brondsky,  per questo continua ad essere necessaria, perché “serve a salvare il volto non comune” dell’uomo.

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“Tutto è terribile, ma cosi pieno di promesse di felicità”

Aspettavo con trepidazione di leggere questo libro.

Certo ad uno sguardo distratto, nell’eccesso di produzione dell’editoria italiana, in un paese in cui coloro che scrivono sono abbondantemente di più di quelli che leggono, questo piccolo libretto potrebbe essere annoverato tra le modeste produzioni di routine di uno scrittore ormai da anni sul libro paga  di una grande casa editrice.

Ma credetemi, non è così.

Ci troviamo invece di fronte all’ennesimo capitolo della particolare Commedia umana che Marco Lodoli dissemina, un pezzetto per volta da più di un decennio, lungo la strada di chi come me è appassionato alla sua scrittura ed ha la pazienza per attendere nell’apparente silenzio il capitolo successivo.

Lo scenario di sfondo è sempre lo stesso: la scuola, il mondo dell’educazione visto da diverse prospettive e spogliato dalle vuote stereotipie che l’estenuante dibattito sull’argomento ci propina ovunque, dove “accadrà tutto quello che deve accadere”.

Questa volta però Lodoli ci gioca la faccia, e il suo alter ego Matteo – prof di lettere assolutamente fuori dai canoni e giovane promessa della letteratura italiana dai ribelli riccioli neri, con un esordio travolgente e mille sogni di gloria letteraria a fare i conti con critiche feroci alle opere successive – ci viene presentato dalla voce e, soprattutto, dallo sguardo segretamente e profondamente innamorato di una bidella che trascorre con lui quarant’anni di servizio in una scuola della periferia romana.

E’ un amore nato e coltivato nel silenzio e nell’illusione, nutrito dalla convinzione che “la letteratura e l’amore pretendono altri mondi, spazi infinito, illusioni inesauribili, non possono retrocedere negli obblighi della realtà”, alimentato dalla tristezza e da una amara e dolorosa invisibilità, ma che si ritiene “più grande del tempo che passa”.

In mezzo c’è la vita, che ci riserva “tanto poco”, che scorre inesorabilmente e sembra trascinare via tutto, dalla realtà alle illusioni, dal successo – che il buon Niccolò Fabi ricorda sempre essere solo un participio passato, ciò che è solo accaduto – alle sconfitte, dal clamore al silenzio.

Sarà un imprinting giovanile, certo, ad aver condizionato così tanto Lodoli, che nella trama semplice ma non banale di questo breve romanzo incastra pezzi di autobiografia più o meno evidente, prima fra tutte la sua amicizia giovanile con Beppe Salvia, grande poeta morto suicida proprio mentre insieme a Lodoli ed altri artisti e poeti immaginava forme, spazi, ambienti in cui la poesia non fosse un esercizio retorico o un grimaldello politico – un espediente strumentale, insomma, e niente più – ma ritornasse ad essere l’eco di una voce che ci appartiene e ci supera,  “che nomina e salva, che raccoglie e consola” giusto per usare le parole con cui Lodoli qualche anno fa presentava le poesie di Claudio Damiani, altro componente di quel gruppo.

Così i pensieri della nostra bidella protagonista, come quelli della professoressa Salviati di “Vapore” o del Preside del precedente romanzo, sono i pezzi di un puzzle che ricomponendosi moltiplica e confonde l’immagine che va creando.

Esistiamo così tanto poco, ma esistiamo” – dicono le diverse voci di questo canone costruito tra prosa e poesia, linguaggio semplice e colloquiale e squarci di riflessione profonda ed intensa, e la nostra vita è un grido, un urlo, una incredibile pretesa e speranza di senso, perché “ogni cosa al mondo vuole esistere, anche se vale poco, anche se nessuno la guarda, sta nel buio e attende di apparire, di collocarsi nella vita, di incastrarsi con le altre cose e farsi sostenere da loro.”

Come recitano i versi, bellissimi e struggenti, di Hugo von Hofmannsthal citati verso la fine del libro:

A che giova tutto questo e questi giochi / A noi che siamo adulti ed eternamente soli / e pur vagando, cerchiamo ancora una meta.”

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Il brillare di costellazioni parallele

Accostarsi ad una antologia poetica è un po’ come entrare in un ristorante e invece di scegliere un piatto piuttosto che un altro, affidarsi alla degustazione offerta dalla casa. Assaggi, assapori, alla fine scopri sempre qualcosa di nuovo che ti colpisce e immancabilmente sai già che qualcosa non risponderà al tuo gusto.

Se la degustazione è di qualità esci sempre però dal ristorante con la voglia di tornarci per mangiare il piatto appena scoperto con calma ed in quantità adeguata.

Ecco, secondo me anche questa antologia risponde a questa logica.

Le poetesse (o poete, vedete voi da quale lato della barricata vi volete collocare nell’odierno estenuante agone linguistico) scelte da Isabella Leardini, poetessa anche lei, molto apprezzata ultimamente anche per la sua efficace attività all’interno delle scuole, appartengono ad un secolo poeticamente molto ricco e variegato, attraversato da voci, stili, impronte diverse ma troppo spesso indagato ed apprezzato esclusivamente al maschile.

Non è l’unica antologia di poesia novecentesca al femminile che cerca di rimediare a questo squilibrio, certo. Ma si distingue tra le tante per la composizione che la Leardini ha voluto offrici nella sua ‘personale’ degustazione. Composizione che ho molto apprezzato nella sua varietà.

Esperienze diverse, lontane stilisticamente e frutto di percorsi e consapevolezze estremamente variegate, convergono nell’antologia e compongono una “costellazione parallela” convincente ed interessante.

D’altronde anche le stelle che l’immaginazione e la fantasia umana hanno nei millenni unito come puntini rintracciandovi il profilo di cigni, di orse e dei più variegati esseri mitologici, brillano in realtà ad anni luce di distanza una dall’altra, eppure noi nelle notti estive, da una spiaggia solitaria o da un prato di montagna, allontanandoci dai lampioni e dalla frenesia cittadina, ne apprezziamo la presenza, le riconosciamo, cerchiamo di ricollegare le linee che possano ricomporne la figura.

Alcune di queste poetesse non le conoscevo per niente, e con estrema curiosità cercherò di trovare qualcosa in più di un assaggio per poterle assaporare meglio. Altre le conosco bene, e mi ha fatto piacere riconoscerle nella costellazione dell’autrice. Altre mancano, e fossi stato io a scegliere le avrei collegate, facendole brillare insieme alle altre.

Ma questa è un’altra storia.

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Bisogno di un personal trainer?

Un personal trainer, questo ci vuole.

La nostra società ce lo dice in tutti i modi. Serve sempre qualcuno che guidi, indirizzi, controlli, verifichi. Soprattutto istruisca.

Stiamo vivendo d’altronde nell’epoca delle istruzioni. Spopolano i manuali per essere in forma, ovviamente. Per mangiare in maniera salutare, per essere un buon insegnante, un genitore performante, un cittadino esemplare. Per ottimizzare i tempi nella giornata, per avere successo nel lavoro, per fare soldi con il trading online, persino per sopravvivere ad un attacco di gnomi da giardino o per difendersi dai calzini selvaggi spaiati (esistono davvero, giuro).

Davide Galipò, che ha già pubblicato pochi anni fa un altro libro dal titolo chiaramente esplicito, “Istruzioni alla rivolta”, questa volta si propone direttamente con un manuale da “personal trainer”, “da eseguire a corpo libero per 15 minuti al giorno” come raccomandano le ultime parole del libro.

Il fatto è che entrando tra le tre sezioni del libro ci si rende conto subito che Davide, con le parole, ci va giù pesante, ed il titolo, l’architettura manualistica del libro, la copertina stessa, hanno un forte impatto “rivoluzionario” che sfrutta il parossismo e un’amara ironia per disinnescare gli ingranaggi della nostra società e delle sue nevrastenie.

Da un lato la parola, al centro di tante poesie, che “non è mai conservazione”, che “nasce per avere una chance tra il machete ed il piombo”, sopravvive a noi, si fa frangente contro la standardizzazione e l’omologazione dei percorsi, delle vite, delle possibilità. Come a costruire una barricata in questi “tempi bui”, lungo gli incroci tra l’ingresso dell’Ikea e  le case non più abitazioni ma rifugio e covo delle solitudini compresse in app di incontri e incomunicabili estraneità.

Parola che diventa radice, infiorescenza improvvisa, poesia consapevole e prosaicamente libera da virtuosismi o indulgenti manierismi, “fattore X” innominabile e indefinibile, vera potenza (forse) del personal trainer che prende le distanze dallo “scrittore sensibile del duemilaventi” che soffrendo “sente l’orda dei buoni sentimenti”.

E poi c’è l’altro polo del libro. Potremmo chiamarla politica, rivoluzione, lotta per l’ideale. Potremmo cercare agganci nella poesia precedente, in Milosz, visionario e profetico premio Nobel polacco che attraversando gli orrori del secolo scorso ha profetizzato le orribili conseguenze dell’attuale. O in Nanni Balestrini, il cui nome qui compare sotto forma di nenia, scioglilingua, mantra arditamente apotropaico.

Due poli indivisi, pungenti, a tratti disturbanti. Che ci mettono in guardia e ci ricordano che “dissuadendoci dal desiderare ardentemente, ci hanno nuovamente schiacciati sul presente”, e fanno emergere, inconsapevolmente o meno, un attaccamento formidabile e decisivo a quella “Unicità he contraddistingue ogni essere umano”.   

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Maestri di rischio

Il mio tragitto da casa a lavoro al mattino è un vero scrigno prezioso.

 I primi 15 minuti sono dedicati, con mio figlio Giacomo, alla ricerca di generi e cantanti che ci convincano o ci incuriosiscano soltanto.  Poi Giacomo scende di fronte al suo liceo ed io continuo da solo, per un’altra mezz’ora.

 A volte mi tiene compagnia Simone Spetia di 24Mattino, a volte risento le canzoni che mi ha fatto scoprire Giacomo, ultimamente preferisco seguire qualche podcast.

Così per caso mi sono imbattuto in “Maestre e maestri d’Italia”, podcast scritto e condotto da Alessandro Banfi, giornalista che leggevo e apprezzavo già dai tempi del Sabato, che in 8 puntate risalendo poco più di un secolo ci presenta “Storie di persone che hanno costruito e rivoluzionato la scuola italiana” ed hanno cambiato di fatto, dal basso, il modo di intendere l’educazione e la scuola.

 La prima considerazione che faccio, risentendo le vite e le scelte di uomini e donne di cui conoscevo già la storia e le opere, come Maria Montessori, Alberto Manzi, Don Milani, Pier Paolo Pasolini, passando per Mario Lodi e Gianni Rodari, o per le attuali esperienze di Eraldo Affinati, Franco Lorenzoni e Rachele Furfaro, fino all’ultima puntata dedicata al genio educativo di don Giussani, è che l’ultimo secolo sia stato per l’Italia, dentro le tragedie e le brutture che lo hanno caratterizzato, veramente prolifico dal punto di vista dell’educazione. E questo, da italiano, un po’ mi inorgoglisce.

La seconda considerazione, che è anche un’evidenza a cui accenna nel corso delle puntate lo stesso Banfi, è che pur nelle differenze profonde tra le diverse esperienze presentate a livello di sensibilità, di ispirazione ideologica, di opportunità, di tempi e spazi diversi dell’azione, tutte le figure proposte hanno un elemento comune irriducibile: l’educazione è una sfida alla libertà dell’alunno, un’occasione perché possa crescere in modo autonomo e svincolato dall’immagine che noi adulti ci siamo creati di lui, entrando in contatto e scoprendo la realtà che lo circonda.

Riascoltare la storia e le esperienze di questi grandi educatori si ricollega inevitabilmente con quello che mi accade intanto, ogni giorno, dopo averne lasciato in sospeso l’ascolto per entrare a scuola, dove passerò gran parte della mia giornata.

Mi capita, a volte, di incontrare alcuni docenti e genitori delusi o amareggiati per comportamenti, atteggiamenti inopportuni, gesti inappropriati di alunni “scomodi”, poco inclini alle regole o poco “diligenti”. Quasi sempre si tratta di ragazzi che hanno delle difficoltà oggettive, certificate o meno, delle situazioni familiari complicate, dei percorsi personali nei quali hanno già accumulato rifiuti e distrazione, se non abbandono, da parte degli adulti che dovrebbero custodirli e proteggerli.

Altre volte, come nelle ultime settimane, nella scuola che dirigo avverto fermento, dibattito interno tra gli insegnanti sulle scelte adottate in questi anni, che se da un lato hanno favorito lo sviluppo di uno spazio sempre maggiore ai talenti, alle aspirazioni e alle diverse sensibilità degli studenti, dall’altro richiedono impegno e costringono a rimettersi sempre in gioco.

Io non amo i conflitti ma apprezzo il confronto leale e schietto ed avverto la fatica e l’insoddisfazione dietro alcune di queste insofferenze o semplici obiezioni,  ma anche il rischio di perdere di vista l’essenziale.

Così provo a legare tutti questi dettagli, apparentemente scollegati.

La “Lettera a una professoressa” della scuola di Barbiana riferendosi ai ragazzi “scomodi” di cui parlavamo diceva, in modo ancor oggi attuale ed efficace:

L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile.
E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo? Allora richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passar da pazzi.
Meglio passar da pazzi che essere strumento di razzismo.”

L’educazione è una sfida, un “rischio” come lo ha definito don Giussani, che chiama in causa le libertà dei piccoli, nella stramba e profetica esperienza della scuola di Barbiana come nelle nostre attuali classi, e insieme la libertà di noi educatori.

Una libertà che non deve accontentarsi per ritrovare dentro l’innegabile e immancabile fatica quotidiana il bandolo di una matassa che ha come ultimo scopo introdurre in maniera consapevole e libera i nostri alunni alla realtà, facendoli protagonisti della vita della scuola, ritrovando la propria soddisfazione professionale nel vedere fiorire la loro umanità in modi e forme sempre diversi e vari, sperimentando strade, opportunità e percorsi sempre nuovi per permettere che ciò accada.

Perchè come dice anche Gert J.J. Biesta nel suo “Riscoprire l’insegnamento”, “L’insegnamento consiste nel creare uno spazio all’interno del quale gli studenti possano incontrare la propria libertà”.

Per questo è fondamentale attingere a fonti di motivazione forti e salde come lo sono le figure splendidamente presentate da Banfi, fuori da agiografie accomodanti e dentro il racconto di esperienze concrete, come quelle che ogni giorno che inizia ci attendono nelle nostre classi, se solo siamo attenti e disposti ad incontrarle ed accoglierle.

“A costo di passar da pazzi”.

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“Quale ragione può esistere. Quale disegno resistere”

Era il 2001. Tra i piccoli libretti de “i poeti di clanDestino”, legati all’omonima rivista di poesia a cui ero abbonato, mi trovai per le mani quello di un giovane poeta, poco più piccolo di me che all’epoca compivo trent’anni.

Il libretto conteneva una trentina di poesie, asciutte e concrete, che attraversavano vicende quotidiane e rapporti umani comunissimi, e mi colpì da subito la sua capacità di cogliere, in pochi versi, l’essenza di un momento, una circostanza, un affetto.

Dopo diciassette anni ritrovai quel giovane poeta, Daniele Mencarelli, quale autore di un romanzo Mondadori dalla copertina e dal titolo che mi incuriosirono, e che comprai subito.

Il romanzo – La casa degli sguardi – mi folgorò, e andai a ricercare la produzione poetica che aveva continuato a sviluppare parallelamente.

Da lì l’incontro con Daniele, l’opportunità di presentare il suo splendido libro nella mia città, una chiacchierata indimenticabile per la sua semplice e schietta profondità, i suoi libri seguenti, la serie Netflix tratta da “Tutto chiede salvezza” che lo ha reso ancora più famoso.

Ma anche leggendo questo suo ultimo romanzo – tutto d’un fiato, in un intero pomeriggio, complice l’influenza di stagione – alle sue poesie ritorno sempre.

C’è una sfrontata e spudorata capacità – che è propria della vera poesia ma che Daniele Mencarelli mantiene anche nella narrativa, e in parte anche nella produzione cinematografica  – di guardare lì dove nessuno oserebbe farlo, nei “dettagli” della vita, quelli più scomodi che solitamente cerchiamo di nascondere persino a noi stessi, senza il minimo pietismo, senza autocommiserazione né esibizione, come quelle tracce di sensore sporco che solitamente cancelli da una bella fotografia.

D’altronde conoscendolo, anche se solo di sfuggita, ho avuto modo di capire che lui è proprio così, pudico e schietto, diretto e riservato allo stesso tempo.

Questa è la forza anche di questo libro e della sua storia, capace di attraversare il fastidio e il disagio, il disincanto e l’imperfezione che la vita – il destino – ti caricano sulle spalle che senti sempre più inadatte, quella Fame d’aria che ognuno di noi ha avvertito, almeno una volta, dentro qualche circostanza.

Dopo la trilogia autobiografica questo romanzo sembra distaccarsi dalla storia personale del suo autore, ma chi conosce la sua poesia scopre che non è proprio così.

È della vita che Mencarelli parla, quando scrive, della sua che diventa specchio a volte anche deforme ma sincero di quella di noi tutti, delle meschinità e dei tradimenti, delle arrese e delle vergogne, della povertà che mortifica e degrada, ma anche degli squarci improvvisi di luce, legati soprattutto a degli incontri, dell’eventualità di una risposta, di una salvezza.

Qui lo troviamo a confrontarsi con la paternità, con i suoi pesi spesso troppo gravosi, con la disabilità che impietosisce ma allontana i più, con l’autismo che è sempre meno riconoscibile e comprensibile ai nostri occhi distratti, con uno sguardo che spesso non ha più niente di umano, neanche verso le persone più care.

Ma soprattutto con un

Perché? Senza più forze, a Dio che vorrebbe pugnalare al cuore. Oppure risparmiarlo. Solo a patto che confessi quale ragione può esistere. Quale disegno resistere”

Ci vuole coraggio, e sfrontata fiducia nella poesia, per affrontare questo fuoco, a governarlo e ad uscirne illesi. Ma Mencarelli, anche questa volta, secondo me ci riesce.

In forza ritengo di quegli occhi che in una sua bellissima e struggente poesia definisce “ sempre troppo aperti sulle cose / che schiantano nervi, cuore / eterni esordienti alla gioia, come al dolore”.

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Aspettando Natale

Mi trovo nel pieno del giro dei plessi per gli auguri agli alunni e agli insegnanti, tra canti natalizi e poesie vecchie e nuove sul Natale, quando mi raggiunge la notizia della morte improvvisa e tragica di Francesca in terra inglese.

Aveva 11 anni quando l’ho conosciuta, era una bambina allegra e determinata, sempre pronta ad assumersi incarichi e rendersi disponibile. Io insegnavo nella sua classe italiano, storia e geografia, ma passavamo tante ore insieme perché a Montagnareale c’era il tempo prolungato, quindi pranzavamo e trascorrevamo pomeriggi a leggere, fare lunghe passeggiate, approfondire argomenti, studiare insieme.

Lei era sempre brava e diligente, e si faceva ben volere da tutti. Durante la terza media ha iniziato a mostrare – come spesso succede a quell’età – un’inquieta ribellione al mondo degli adulti ed alle sue regole, ma non ha mai smesso di riservarmi un’affettuosità particolare ed unica.

“la sua alunna preferita” si firmava due anni dopo essere uscita dalla scuola media in un biglietto che ho ritrovato oggi per caso – ma ho imparato da tempo che il caso è un modo approssimativo di avvicinarci al destino nostro e di chi abbiamo attorno.

Così in questi ultimi giorni i sorrisi lieti dei piccoli alunni della mia scuola, il pianto di chi tra loro voleva la sua mamma invece di cantare la canzoncina con i suoi compagni, l’attesa e la gioia per Babbo Natale che arriva a fine recita e distribuisce pacchettini colorati, si sono sovrapposti al ricordo di Francesca, a quello sguardo complice e consapevole che ci scambiavamo quando incontrandoci negli anni seguenti io le chiedevo come stava, lei mi riassumeva il percorso più o meno accidentato della prosecuzione dei suoi studi. A quel suo desiderio di bene e di vitalità tragicamente e misteriosamente interrotto.

A questi due pensieri si è aggiunto poi quello per S., una piccola alunna della mia scuola ricoverata in terapia intensiva mentre i suoi compagni cantano aspettando l’arrivo del Natale, e per G., che lo scorso giugno non ha sostenuto gli esami con i suoi compagni perché attendeva il trapianto di midollo e adesso mi comunica che tornerà presto a casa.

Ed eccomi qui, alla vigilia di Natale.

Nella mente e negli occhi queste piccole vite, quelle tragicamente interrotte e quelle aperte al sorriso e alla speranza, quelle provate dal dolore e dalla malattia e quelle spensierate e gioiose.

In una tasca ritrovo il foglietto dei canti di una delle tante iniziative di questi giorni. L’ho conservato perché mi aveva colpito la scelta di un canto in latino, eseguito in maniera eccezionale dai bambini di scuola primaria. Non lo conoscevo, si intitola “Mater Jubilaei” e mi hanno detto essere stato eseguito diversi anni fa da Tosca in un concerto in Vaticano.

A un certo punto il testo dice:

“Quem quaeras mihi dic, cor meliora petens”

Chi aspetti, dimmi, cuore che chiedi cose migliori

Non posso non pensare al cuore di Francesca, incontentabile motore di ribellione e di allegria, sempre indomitamente alla ricerca di “cose migliori”.

E come al suo, anche al cuore dei tanti bimbi e ragazzi incontrati in questi giorni, che mi hanno regalato un sorriso ed un abbraccio, ai loro genitori a cui ho augurato – in un tempo duro e votato all’egoismo e alla disillusione come il nostro –  di poter offrire loro, insieme, una speranza credibile.

Chi aspettiamo, mentre desideriamo cose migliori?

Mi sembra la domanda più decisiva, in un giorno di vigilia, mentre attendiamo un Dio che ci venga incontro, che ci prenda sul serio, che raccolga e custodisca le incongruenze e le terribili disparità che la vita fa nel trattare le singole esistenze. Che non renda tutto questo inutile e vano, che dia senso alla morte di Francesca, alla sofferenza di S., alla speranza vigile di G., al nostro essere oggi qui, aspettando ancora una volta la sua nascita nel mondo.

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“It was good” è la sfida di ogni giorno

Non è una poesia facile da leggere quella di Pietro Cagni.

Ho ricevuto il suo libro come prezioso dono un mese fa; l’ho letto, riletto, e poi riletto ancora, tutto d’un fiato e poi poco per volta.

L’ho tenuto sul comodino, ripreso a piccole dosi, lasciandomi esposto all’amianto -l’asbestos – delle parole, dei singoli versi, di alcuni suoni.

Non è una poesia che ammicca, quella di Pietro. Non imita, non si lascia incasellare, non somiglia e non vuole somigliare a qualcosa o qualcuno.

Certo si sente, a forza di riletture, un’eco buona e profonda, quella paternità che rifugge l’imitazione e diventa impronta. Come quando qualcuno ti incontra e dice: ti muovi come tuo padre, hai le sue stesse espressioni del viso.

È una lotta e una resistenza, la poesia di Pietro. Contro l’oblio, contro l’incespicare “bastardo” della memoria (così l’avevo definito io, quando avevo pressapoco la sua età), contro la smemorata incapacità di trattenere, “Qui, tra le cose che non si ricordano” quello che conta.

Come gli ho scritto subito dopo aver letto d’un fiato il libro, la sera in cui l’ho ricevuto, continuo ancora a sentirmi a mollo in un fluido sconosciuto, in cerca di punti di riferimento, mentre vedo emergere volti, nomi, corpi, ricordi.

È Pietro che si fa padre, fratello, custode, guardiano, vedetta.

Come dovrebbe essere qualunque gesto poetico autentico che non bara, non usa facili trucchi di prestigio, non si distende comodo sulle citazioni facili facili da copiaincollare sui social, e rivela invece – come quei suoi due versi improvvvisi, i più belli che io abbia letto negli ultimi tempi – che la vita si da “per compimento e sottrazione / e taglio. E vita impossibile”.