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Buona la prima, Roberta

A cosa servono le parole?
In un bel saggio sul loro “potere” Vera Gheno dice, anche rifacendosi forse al pensiero narrativo di Bruner, che le parole ci aiutano innanzitutto a costruire il “senso del sé”, a capire chi siamo, cosa vogliamo, qual è il senso del nostro essere al mondo; ci aiutano anche a scoprire la realtà, il qui ed ora della nostra esistenza incastrato nel fluire incessante dello spazio tempo; e ci aiutano, infine, ad entrare in relazione con gli altri, forse – aggiungo io – perché quell’avventurosa e continua ricerca, che condiziona le prime due funzioni della parola, sarebbe uno sterile ed infruttuoso esercizio solitario se la portassimo avanti tristemente da soli.
“Tutta la vita che resta” è appunto una convincente e riuscita testimonianza di quanto affermato da Vera Gheno.
Ci sono dolori, tragedie, ingiustizie, che lasciano attoniti e ammutoliti, che segnano – come viene efficacemente descritto nelle prime pagine di questo bel romanzo – uno spartiacque tra la vita che  c’era – che sentivamo quasi di possedere per diritto, a cui ci eravamo abituati senza farci neanche caso – e quella che resta, come le macerie dopo un bombardamento o un terremoto improvviso.
Sono ferite indicibili, irrimediabilmente segnate dalla sensazione che non vi sia una possibile spiegazione, un dettaglio a cui aggrapparsi, quando il caso beffardamente ti scaglia contro il fulmine dell’infelicità, e – soprattutto – non ci siano, non possano esserci parole adeguate.
Gran parte dei reduci delle grandi tragedie del secolo scorso – dai campi di sterminio nazisti ai gulag sovietici, dalle atrocità del Vietnam a quelle della Serbia – hanno pagato con il mutismo l’onta di sopravvivere a quelle tragedie, come accade anche ad una delle protagoniste del libro.
La maggior parte delle persone, anche quelle che ci vogliono bene e magari ci hanno accompagnato per anni, di fronte ad un simile mutismo mostrano una totale incapacità di reazione, avviluppate nella vergogna e nel dolore, nella rigida impossibilità di sporgersi su di un baratro che viene quasi dimenticato, omesso.
E poi ci sono persone che hanno la forza – quella ingenua baldanza di Leo che non fa i conti ma d’impeto si butta a capofitto – di affrontarlo, quello stesso baratro, di scandagliarlo e – soprattutto – di cercare le parole, rompendo il mutismo.
“Possiamo chiuderci nel dolore, Bertilla, – dice una delle protagoniste in uno dei passaggi più struggenti del romanzo – o decidere di prendere il buono che abbiamo intorno» (…). «È difficile. Ma ho bisogno di credere che in tutto quello che è stato ci sia un senso che ora non possiamo comprendere. Che un giorno tutto sarà chiaro, che quanto è stato non è che il dettaglio di un disegno che ancora non abbiamo occhi per vedere.»

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