
Mi trovo nel pieno del giro dei plessi per gli auguri agli alunni e agli insegnanti, tra canti natalizi e poesie vecchie e nuove sul Natale, quando mi raggiunge la notizia della morte improvvisa e tragica di Francesca in terra inglese.
Aveva 11 anni quando l’ho conosciuta, era una bambina allegra e determinata, sempre pronta ad assumersi incarichi e rendersi disponibile. Io insegnavo nella sua classe italiano, storia e geografia, ma passavamo tante ore insieme perché a Montagnareale c’era il tempo prolungato, quindi pranzavamo e trascorrevamo pomeriggi a leggere, fare lunghe passeggiate, approfondire argomenti, studiare insieme.
Lei era sempre brava e diligente, e si faceva ben volere da tutti. Durante la terza media ha iniziato a mostrare – come spesso succede a quell’età – un’inquieta ribellione al mondo degli adulti ed alle sue regole, ma non ha mai smesso di riservarmi un’affettuosità particolare ed unica.
“la sua alunna preferita” si firmava due anni dopo essere uscita dalla scuola media in un biglietto che ho ritrovato oggi per caso – ma ho imparato da tempo che il caso è un modo approssimativo di avvicinarci al destino nostro e di chi abbiamo attorno.
Così in questi ultimi giorni i sorrisi lieti dei piccoli alunni della mia scuola, il pianto di chi tra loro voleva la sua mamma invece di cantare la canzoncina con i suoi compagni, l’attesa e la gioia per Babbo Natale che arriva a fine recita e distribuisce pacchettini colorati, si sono sovrapposti al ricordo di Francesca, a quello sguardo complice e consapevole che ci scambiavamo quando incontrandoci negli anni seguenti io le chiedevo come stava, lei mi riassumeva il percorso più o meno accidentato della prosecuzione dei suoi studi. A quel suo desiderio di bene e di vitalità tragicamente e misteriosamente interrotto.
A questi due pensieri si è aggiunto poi quello per S., una piccola alunna della mia scuola ricoverata in terapia intensiva mentre i suoi compagni cantano aspettando l’arrivo del Natale, e per G., che lo scorso giugno non ha sostenuto gli esami con i suoi compagni perché attendeva il trapianto di midollo e adesso mi comunica che tornerà presto a casa.
Ed eccomi qui, alla vigilia di Natale.
Nella mente e negli occhi queste piccole vite, quelle tragicamente interrotte e quelle aperte al sorriso e alla speranza, quelle provate dal dolore e dalla malattia e quelle spensierate e gioiose.
In una tasca ritrovo il foglietto dei canti di una delle tante iniziative di questi giorni. L’ho conservato perché mi aveva colpito la scelta di un canto in latino, eseguito in maniera eccezionale dai bambini di scuola primaria. Non lo conoscevo, si intitola “Mater Jubilaei” e mi hanno detto essere stato eseguito diversi anni fa da Tosca in un concerto in Vaticano.
A un certo punto il testo dice:
“Quem quaeras mihi dic, cor meliora petens”
Chi aspetti, dimmi, cuore che chiedi cose migliori
Non posso non pensare al cuore di Francesca, incontentabile motore di ribellione e di allegria, sempre indomitamente alla ricerca di “cose migliori”.
E come al suo, anche al cuore dei tanti bimbi e ragazzi incontrati in questi giorni, che mi hanno regalato un sorriso ed un abbraccio, ai loro genitori a cui ho augurato – in un tempo duro e votato all’egoismo e alla disillusione come il nostro – di poter offrire loro, insieme, una speranza credibile.
Chi aspettiamo, mentre desideriamo cose migliori?
Mi sembra la domanda più decisiva, in un giorno di vigilia, mentre attendiamo un Dio che ci venga incontro, che ci prenda sul serio, che raccolga e custodisca le incongruenze e le terribili disparità che la vita fa nel trattare le singole esistenze. Che non renda tutto questo inutile e vano, che dia senso alla morte di Francesca, alla sofferenza di S., alla speranza vigile di G., al nostro essere oggi qui, aspettando ancora una volta la sua nascita nel mondo.