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“La vita è effimera, effimera quanto volete, ma sarà eternamente stata”

Ho scoperto Valentino Ronchi qualche anno fa, attraverso una raccolta di versi, “Buongiorno ragazzi”, nel piccolo spazio dedicato alla poesia di una libreria. Incuriosito ho comprato nei mesi successivi altri due suoi libri di poesia e il romanzo “Riviere”.

Adesso, dopo aver letto tutto d’un fiato il suo ultimo romanzo, rimango ancora più convinto dell’impressione iniziale, che a caldo gli ho scritto, subito dopo aver chiuso l’ultima pagina del romanzo, per non lasciarla disperdere.

Ha una dote preziosa, Valentino. È una dote squisitamente poetica, che anche qui, in quello che lui stesso ha definito un tentativo “di assecondare la Vita” emerge, chiara e lucida.

Riesce – qui come negli altri suoi testi – a far immergere chi legge nei dettagli insignificanti di vite qualsiasi, calpestarne i sentieri ghiacciati, guardare giù da finestre che si affacciano su piazze, seguire il filo dei pensieri che si svolgono mentre la vita scorre, apparentemente indifferente. Ma proprio in quel momento avverti di toccare, proprio fisicamente, il mistero insondabile di quelle esistenze, e quindi di ognuno.

Recensendo un altro suo libro un paio di anni fa lo avevo chiamato intuito – quella capacità di guardare dentro (in-tueri) per provare ad afferrare la vertigine dell’ineffabile.

Per dirla con Alina – gli ho scritto poche ore fa – “tu dai un nome a cose che sentiamo tutti”. Che è poi il cuore e il segreto della vera poesia.

E da una poesia nasce anche questo romanzo. L’avevo segnata, in “primo e parziale resoconto di una storia d’amore”, come quella che mi era piaciuta di più. Si intitola “Presque-rien” – Quasi niente – così come questo romanzo, di cui contiene il cuore, ed è inserita in una sezione (un’altra simile c’è anche in “buongiorno ragazzi”) sul 1933, anno in cui il filosofo Vladimir Jankélévitch insegnò in un Liceo di Lione.

“Quasi niente è vicino ad essere niente, è un passo da essere niente” –  dice Jankélévitch nella sua ultima lezione a Lione, quasi sul finire del romanzo – “come la vita che è effimera, effimera quanto volete, ma sarà eternamente stata”.

Effimere sono le vicende personali degli altri due protagonisti, Philippe e Alina. Effimere forse le loro speranze, inconsapevolmente coltivate in anni che preludevano alla tragedia della seconda guerra mondiale. Effimeri i loro desideri, dunque, le loro aspirazioni, la scoperta condivisa dell’amore, della filosofia, del desiderio di conoscenza.

Come acutamente anche Leopardi annotava nel suo Zibaldone, “l’uomo arriva a confondersi quasi col nulla”.

Eppure.

Riprendo in mano il libretto di poesie di Valentino, e la poesia che avevo sottolineato allora.

“lei lo sa di suo – le scrive
queste cose – che è così che si vive e s’improvvisa
con nulla più che mezze certezze. E altro non si fa
che andare avanti e rallentare un attimo talvolta
per segnarsi sul quaderno qualche rigo, qualche traccia.”

 Valentino Ronchi segue queste tracce, le conserva e custodisce, ci mette dietro esse, facendocene appassionare – perché in fondo “ognuno ha il suo mistero” e la poesia come l’arte, ci ha insegnato Joseph Brondsky,  per questo continua ad essere necessaria, perché “serve a salvare il volto non comune” dell’uomo.

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